L’Isola che non c’era – Recensione album

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Sono passati più di dieci anni da “Anima meccanica”, quasi quattordici a fare bene il conto. Quattordici anni nella vita di chiunque sono poco riassumibili in una manciata di parole, ma per un artista – dove tormento e pace si alternano spesso tumultuosamente e senza resa – sembrano un’eternità. Ecco perché l’uscita di questo nuovo album di Giovanni Baglioni si porta dietro una rete di aspettative ed attese non semplice da dipanare.

Giovanni, virtuoso della chitarra acustica solista, approccia allo strumento in un modo che incaglia anche lo sguardo e non solo l’ascolto, e che fa della esecuzione un fatto visivo ed uditivo insieme, con tapping e uso percussivo della chitarra, oltre ovviamente a quelle accordature aperte o alternative di Hedgesiana memoria. Sì, perché quelli sono i nomi che devono venire alla mente quando si ascolta un suo pezzo, la storia di questo strumento nelle dita di Tommy Emmanuel, Pierre Bensusan, Erik Mongrain, Preston Reed e dello stesso Michael Hedges.

L’album si è presentato con il primo singolo (si dice così in questi casi), Emisferi, accompagnato da un video (qui www.youtube.com/watch) dove, come si accennava all’inizio, la forza dell’impatto visivo accompagna il viaggio uditivo, ampliandolo e arricchendolo. Ci sono due anime che s’incontrano e per un attimo si riconoscono: questo è il loro percorso di avvicinamento e, forse, allontanamento. Ci sono pianoforte e chitarra ad impersonare i due amanti, prima a scrutarsi, sfiorarsi, poi a completarsi e fondersi. Un dialogo in musica dove le parole non sono necessarie, dove ritmi e melodie raccontano, si intrecciano e si fanno voce.

Il disco è composto da otto tracce, ognuna agganciata ad un suo preciso mondo di emozioni e significati, disegnati con la sapienza di tecnica e cuore, perché se è innegabile la padronanza dello strumento lo è ancora di più l’afflato compositivo e l’urgenza di mettere in note i propri complessi mondi interiori. E se Toro Seduto ascendente Leone ci porta ai piedi di un capo indiano, e nei suoi luoghi sconfinati, fisici e spirituali, Miraggio è calore e un incedere lento in un posto inospitale fino alla visione che allevia il cammino, mentre Roots è ipnotica, incessante ricerca delle proprie radici, da mantenere o sradicare per trovare un altro luogo; radici imprescindibili per restare in piedi contro il vento del mondo. SkArpeggio si prende la libertà giocosa di essere puro divertissement; Il Giro del Giorno in 80 Mondi è un viaggio dell’immaginazione e l’ascolto porta esattamente dove si vuole (o dove ancora non si sa di voler andare); Il rischio dell’emozione è una pura ‘canzone d’amore’ e chiudiamo con Tea Lemon Mummy, la traccia che apre l’album, brano che si muove nel mondo sonoro di Tommy Emmanuel, difficile da non canticchiare già dopo il primo ascolto.

Vorrei bastasse. Un “atto liberatorio” il titolo, e il disco tutto, per esternare anche il forte malcontento per un mondo esterno alla continua ricerca di personaggi e storie, dove la sola musica sembra bastare sempre meno. Un manifesto, una dichiarazione d’intenti, un desiderio. Per un’anima dove la musica, nel tempo, è stata cura tanto quanto gabbia dalla quale tentare invano di fuggire; per un artista che ha sentito tutto il peso di aspettative non amiche, e che negli anni di confronto e lotta contro questo senso di inquietudine, alla sovraesposizione artificiosa ha preferito il silenzio.

Bene, oggi non è più il tempo del silenzio.
Nel titolo troviamo una sorta di affermazione, quasi una domanda aperta a chi ascolta. Ecco, secondo noi per oggi sì, può bastare. Quel che vorrai fare, dire, suonare domani non lo sappiamo e non importa saperlo. Lo scopriremo solo vivendo, come diceva Lucio.
Perciò… bentornato.

Giulia Zichella

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